Monte di Dio, Erri de Luca

Ecco il monte di dio, quello al quale saliranno coloro che hanno mani innocenti e cuore puro (Salmo 23).
Per questo, forse, la notte di capodanno del 1957 un uomo cade dal terrazzo del palazzo più alto di Montedidio, mentre un altro, da quello stesso terrazzo, spicca il volo verso Gerusalemme, guidato da un occhio di cicogna spuntatogli nella testa, sorretto da ali di angelo maturate dentro la sua gobba.
Il piccolo apprendista falegname, l’amante inesperto, il novello scrittore in italiano (perché l’italiano è zitto contro il chiasso del napoletano), il figlio solo, il confidente dell’ebreo scampato al massacro nazista, il giovane che lotta contro le ingiustizie che vede intorno a sé, il lanciatore di bumeràn.
Tutto questo è il portagonista di questo romanzo, scritto in forma di diario dai capitoli brevissimi, in cui l’italiano è interrotto da scrosci di napoletano.
Lentamente, immagine dopo immagine, avanziamo nei sei mesi (o poco più) della vita di un tredicenne che ha studiato (“L’istruzione obbligatoria va fino alla terza elementare, lui [il padre, n.d.r.] mi ha fatto studiare fino alla quinta perché ero malatino e poi così avevo un titolo di studio migliore“), che sa leggere l’italiano, che sa scrivere, che sta per diventare uomo (“ommo“), che soffre per la morte della madre e che impara ad amare Maria (“I tredici anni suoi sono più cresciuti dei miei, lei già sta in un corpo arrivato“).
Più che un romanzo, quasi un poema.
Montedidio, Erri De Luca